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Nonna Leontina

Correva l'anno 1948 e io muovevo i primi passi, piccoli, ma li muovevo. Protetto dal babbo Nicola  e dalla mia mamma Gina e amato dalla nonna Leontina, la mamma adottiva del mio papà. 

Ero piccolo, avevo appena quattro anni, mi ricordo la nonna Leontina, la mamma adottiva del mio papà, una donna che parlava poco, ma che mi voleva tanto, ma tanto bene. Me la ricordo sofferente, negli ultimi anni di una vita passata più che a vivere a sopravvivere e adesso, quella vita l'aveva privata di un seno, tumore, che la costringeva a frequente applicazioni di raggi in attesa di una sicura morte. Ciò nonostante voleva che mi addormentassi nel suo letto insieme a lei, anche se di notte, nel sonno, io la scalciavo e forse la colpivo sulla parte martoriata, ricoprendomi d'affetto di quell'affetto che avrebbe voluto dare a un figlio tutto suo. Suo marito era emigrato in America come tanti, un posto lontanissimo allora, da cui non sarebbe mai ritornato, ucciso e privato di quei quattro soldi guadagnati sulla nave del ritorno. Lei viveva con un suo figliolo adottato, mio padre, salvato dalla "rota", e cresciuto in un istituto, perché allora era frequentissimo. Son sicuro che lei fosse vecchia già a vent'anni. Vestiva, come del resto facevano tutte le contadine d'allora, con una lunga gonna nera, ed uno scialle scuro sulle spalle. D'inverno e d'estate, perché le stagioni erano quelle che regolavano la vita della campagna. Il nero era il colore dell'abito, quasi che la vita fosse fin da subito l'inizio di un funerale. Portava un fazzoletto sulla testa (scuro pure quello) ed il suo mondo era racchiuso in un triangolo: la

casa, la chiesa, la stalla. Così fin da piccola, votata alla sottomissione e al destino, che fu spesso di povertà se non fu di miseria. Del resto le donne di quegli anni cinquanta, erano prime ad alzarsi quand'era ancora buio e le ultime ad infilarsi in un letto col materasso riempito di "sfoglie", imbottito con foglie di pannocchie di granoturco, che all'inizio era alto e per entrarci ti ci voleva la scala e poi mano a mano si appiattiva abbassandosi. E tutt'attorno a loro bambini e marmocchi ed il ricordo di un uomo. Che spesso era assente, portato lontano dalla ricerca di tozzo di pane. Quelle donne erano ricche di lacrime e figli e di qualche animale. Dedicavano agli uni le cure e l'affetto con la stessa caparbia insistenza con la quale accudivano il porco o la vacca. Perché se ai primi si affidava il futuro, ai secondi era legato il presente. Non era il medioevo. Furono gli anni fin dopo la seconda guerra mondiale, pressappoco fino ai Sessanta quando anche qui il mondo cambiò. Ma non troppo e non tutto. Il primo regalo era una gerla, magari minuscola, persino graziosa, ma pur sempre una gerla da mettere in spalla o un canestro di vimini da mettere in testa sulla "spara", una mappina acconciata e attorcigliata per proteggersi la cute. E man mano che aumentava l'età, non sempre seguita dalla statura, aumentava anche il peso da portar sulla schiena. Fosse l'erba o la legna; lo strame o il letame, erano questi i balocchi di un'infanzia già vecchia. Furono costrette a confrontarsi e a combattere spesso con le asprezze della natura, le nodosità degli uomini, la diffidenza delle suocere. Crebbero sottomesse agli uni e alle altre. Le prime alle funzioni, le ultime a lasciare la chiesa. Le orazioni furono il loro analgesico e, sovente, la loro ciambella. Per non affogare. Nascevano in casa e morivano fra le mura domestiche. Unico privilegio, col senno del poi, visto che adesso si sono cellophanate persino la vita e la morte, lontano dagli affetti, dentro le asettiche mura degli ospedali. Nel mondo cristiano della civiltà contadina di questa terra, alle donne toccò di tenere in piedi la casa e la famiglia, la tradizione e la fede. Poi molto si è sgretolato. Ma se a queste donne, ormai nonne, le nipoti chiedevano "perché nonna ti sei sposata che eri quasi una bambina?" Rispondevano, senza esitazione alcuna: "perché noi eravamo già donne". Appunto.

 

 

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